Niki per noi (o per me)
Che cos’è Niki Lauda, nella testa di chi è nato negli anni ’80?
Un nome, un simbolo, un pensiero, una macchina? Che cosa?
Per chi è nato anche solo all’inizio negli anni Ottanta, in un’era ancora analogica e ancora legata al decennio precedente, ancora con i pantaloni a zampa e la giacca della Standa, i finanziamenti Sava e la teleselezione, le interurbane, i gettoni e le chiamate ai parenti lontani, alla Pro Loco del paese di montagna, Lauda è un’entità ancora nebbiosa, bagnata dalla pioggia del ricordo che c’è e non c’è.
Dire Lauda, per chi non lo ha scoperto e studiato dopo, vuol dire pensare immediatamente alle fiamme dell’inferno che avvolgono la sua monoposto, per poi scoprire che a salvarlo fu un altro grande artista, prima ancora che pilota, e che ha tutte le caratteristiche e le carte in regola per essere un artista: Arturo Merzario.
Uno che, se per telefono non ti ricordi tutto quello che ha fatto nella sua vita, e se sfortunatamente sei in una fase in cui magari stai riprendendo confidenza con la memoria e i nomi, perché gli incidenti non capitano solo a Lauda o solo in pista, ti banna dal suo vocabolario e ti mette nel libro dei cattivi, come si fa in Ticino.
Chi è uscito nel 1981, come quello che scrive queste poche righe mentre sta facendo anche altre Tre cose in simultanea, con la dote dell’alabarda spaziale e con le caratteristiche di chi è cresciuto a superpoteri da telefilm o cartone giapponese orchestrato da Vince Tempera, di Lauda sa poco e niente, o saprebbe poco e niente. E per riscoprirlo per come era, bisogna non ricordarsi altro che quello che ci si ricordava quando, agli albori delle letture di AutoCapital, fresco di edicola, e di Gente Motori, Lauda sapeva evocare solo il fuoco e la rinascita.
A differenza di Ayrton Senna, consegnato all’eternità da quella curva di Imola che tutti conosciamo, compresi i figli nel 2000, Niki Lauda è stato capace di dimostrarci la forza di rinascere, con quel piglio tipicamente austriaco, embrione di tutto ciò che riconosciamo come teutonico, indistruttibile come il tetracloro, sedimentato nel tempo e sempre coerente.
Forse coerente anche nell’impiegare anni nel dire un grazie a Merzario, che lo ha salvato e messo nelle condizioni di vivere, con tutte le cicatrici addosso, e di aprire persino un’azienda che facesse tutt’altro, e che volasse davvero.
Chi, come il sottoscritto, ha pensato bene di uscire allo scoperto una domenica di maggio, mentre Piquet vinceva con la Brabham proprio a Imola, di Lauda ricorda o vuole ricordare quello che il nome evocava, all’inizio.
Se volete leggere e sapere tutto di lui, questo non è lo scritto adatto, perché c’è già Wikipedia, ci sono già miliardi di articoli in tutto il Mondo, di persone che vanno a cercarne altri, per verificare se le fonti siano giuste. Ammesso che lo facciano.
Se proprio devo insistere con la memoria, o cercare nei ricordi non immagazzinati nel momento in cui erano contemporaneità, allora di Niki Lauda voglio tenere presente, prima ancora che ricordare, il suo essere stato alfista, nel più teutonico, austro-ungarico o prussiano dei modi. Voglio tenerlo vivo, nelle stanze del cervello, che così fa anche un po’ impressione, perché somiglierebbe volentieri a Palazzo Te, mentre guida un cuneo chiamato Giulietta, mentre posa di fianco a una Spider o mentre corre, in pista, con il Biscione.
Grazie, Niki, per tutto quello che non ricordo.
Enzo Bollani | Bosisio Parini, 20 maggio 2020.